Dopo un 2024 in cui ha dettato legge, il dollaro USA sta continuando a dominare la scena anche in questo inizio di nuovo anno. Il biglietto verde ha trovato slancio dopo che gli elettori americani hanno scelto
Donald Trump come prossimo presidente degli Stati Uniti. Il leader repubblicano, che entrerà ufficialmente alla Casa Bianca nella cerimonia inaugurale del 20 gennaio, ha promesso di applicare dazi generalizzati sulle merci importate dagli Stati Uniti, alimentando in questo modo le aspettative di un
risveglio dell'inflazione.
Le ultime letture sul carovita hanno allontanato temporaneamente questo timore, ma a giudizio degli economisti ci sono tutte le condizioni affinché tariffe più aspre inneschino meccanismi di rincaro dei prezzi al consumo. Se così fosse, la Federal Reserve dovrebbe quantomeno ammorbidire la sua politica di tagli ai tassi di interesse e questo finirebbe per rendere la vita più facile al dollaro USA per via di ritorni più elevati dalla sua detenzione.
Il fenomeno dell'inflazione, che sta spingendo gli investitori a fare incetta di dollari, è legato alla moneta americana anche attraverso un altro canale: quello degli stimoli fiscali. Trump ha annunciato di voler tagliare le tasse alle società e di avere intenzione di allungare i tagli ai privati stabiliti durante il suo primo mandato nel 2017 e in scadenza quest'anno. Tutto ciò potrebbe stimolare la domanda dei consumatori, che si troverebbero in tasca più denaro da spendere, alimentando quindi il processo di rialzo dei prezzi.
Dollaro USA: ecco perché potrebbe essere sopravvalutato
Ma tutto questo quanto può durare? Stephen Jen, Amministratore delegato del gestore patrimoniale Eurizon SLJ, ha avvertito che il dollaro USA potrebbe essere sopravvalutato di circa il 22% e tre fattori ne spiegano il motivo.
Il primo è legato a una questione di politica fiscale aggressiva. Gli Stati Uniti hanno un deficit fiscale del 6-7 per cento del PIL, il che spinge la crescita del Paese. Ma cosa succederebbe se gli USA fossero costretti a un programma di consolidamento fiscale che portasse il parametro al 3% come avviene in Europa? A quel punto verrebbero fuori i limiti di quella sorta di "eccezionalismo americano" e quindi della corsa del dollaro, sostiene il top manager.
Il secondo motivo attiene a una spesa fiscale insostenibile. Attualmente, le spese federali degli Stati Uniti sono circa il 23% del PIL, mentre le sue entrate ammontano a circa il 17-18% del PIL. L'economia americana non è in recessione e quindi non è giustificata, secondo Jen, un'esposizione di tale portata. Questo induce a pensare che presto o tardi la posizione fiscale degli Stati Uniti dovrà essere corretta.
In terzo luogo, gli USA hanno accumulato molta più inflazione negli ultimi cinque anni di Paesi come Giappone e Cina. Dalla fine del 2019, infatti, l'inflazione cumulativa americana è stata circa del 24%, a fronte di quella del 10% del Sol Levante e del 3% del Dragone. Questo significa che nel mercato dei beni, gli Stati Uniti non sono competitivi e il dollaro forte è un grosso limite. "I dazi potrebbero fornire una protezione temporanea a un Paese che non è più competitivo. A nostro avviso, non dovrebbero portare a un ulteriore apprezzamento del dollaro, ma potrebbero al più contribuire a prevenirne un forte deprezzamento", ha affermato Jen.