Appare un controsenso, ma proprio quando il mercato prende atto di dati di inflazione europea e americana in costante ridimensionamento con conseguente riduzione delle aspettative di operatori finanziari, consumatori e imprese, allora potrebbe essere il momento di cominciare a reinvestire in bond indicizzati all’inflazione.
Questo particolare tipo di obbligazione ibrida, parte a tasso fisso e parte a tasso variabile (il tasso annuo di inflazione generale), tende ad essere molto apprezzato quando il livello di inflazione fa la sua presenza costante su tv, web, giornali e talk show. Come nel 2021-2022, anni in cui il livello dei prezzi al consumo era schizzato in aria dopo lunghi periodi a zero virgola.
E in quei momenti in cui l’inflazione sorprende verso l’alto le obbligazioni indicizzate fanno effettivamente molto bene, meglio del tradizionale tasso fisso proprio grazie alla copertura variabile assicurata dalla componente linked all’inflazione.
Poi però le banche centrali aumentano i tassi e se le misure si rivelano efficaci (come sta accadendo), ecco che le aspettative degli operatori si ridimensionano. Andare controcorrente quando il sentiment era ai massimi su questi strumenti si rivela vincente. Ad esempio in America sulla scadenza 5 anni gli operatori oggi trovano tassi reali, ovvero la differenza di rendimento tra tasso fisso tradizionale e rendimento offerto da un’obbligazione inflation linked escludendo la componente variabile, di poco inferiori al 2%.
Questa è considerata universalmente la cosiddetta aspettativa di inflazione. Più scende e più il prodotto indicizzato soffre perché la gamba variabile sarà meno remunerativa rispetto a chi ha sposato un bond a tasso fisso integrale e viceversa. Ma quando l’inflazione si muove a sorpresa oltre le attese, gli inflation linked danno il loro meglio, indipendentemente dai livelli di partenza del rendimento, basso o alto che sia. E questo spesso appare controintuitivo. Non è il livello di inflazione che conta, quanto la sua distanza dalle aspettative.
Oggi un ETF Inflation linked è meno rischioso rispetto al 2023
Ecco perché misure di aspettative di inflazione modesta o in costante ridimensionamento come si sta cominciando ad intravedere potrebbero rivelarsi interessanti per strumenti comunque sempre sensibili alla duration. E trattandosi di scadenze solitamente lunghe questo fattore va considerato.
Uno storico ETF come Amundi Euro Inflation linked bond ci permette di capire in che situazione siamo oggi. Il grafico si riferisce proprio a questo strumento.
Dopo la caduta cominciata nel 2022, l’ETF ha avviato una fase di rimbalzo che nel 2024 è stata caratterizzata da un range di movimento piuttosto ristretto. Tassi in discesa hanno compensato l’effetto negativo portato dai minori contributi dall’inflazione, scesa molto anche nella componente aspettative.
Non sono però lontane le barriere di resistenza che hanno contenuto il rimbalzo dell’ETF e nel frattempo il tema inflazione sembra essere uscito dai radar dei media. Ovviamente c’è la concreta possibilità che l’inflazione dal 2% di obiettivo scenda ancora più in basso, ma per chi cerca protezione dalla perdita di potere d’acquisto oggi comprare inflation è meno rischioso rispetto al 2023 quando le aspettative degli operatori erano molto alte.
Lo stesso vale per i titoli americani o TIPS. Esistono diversi ETF quotati che contengono panieri di bond indicizzati all’inflazione americana. Anche in questo caso il ribasso 2022-2023 è stato violento con perdite di prezzo che hanno sfiorato il 20%. Negli ultimi mesi però c’è stato un risveglio con l’ETF iShares Tips che però a distanza di due anni vanta ancora un saldo negativo.
Quando abbiamo visto negli ultimi 10 anni questo bilancio? L’ultima volta risale al 2018 e prima ancora al 2014. E al tempo quel segnale si rivelò fortemente bullish per i Tips. Vedremo se la storia si ripeterà.